Original English version following below
Mentre mi crogiolavo al sole della Crimea pedalando chilometri senza impegnarmi troppo, ricevetti la notizia che ero stato convocato per la prima squadra della nazionale. Tre settimane più tardi avrei pedalato a fianco dei giganti del ciclismo sovietico. Questo era il gradino più alto della scala, non si poteva raggiungere nessuna vetta più alta, ero in cima.
Solo un anno fa ero seduto alla riunione della Titan e ascoltavo Yuri Elizarov parlare del suo piano per la medaglia d’oro. La porta verso la nazionale élite e le Olimpiadi del 1988. Ed eccomi qui, all’Hotel Primorskaya, a parlare con la ragazza dell’accettazione per spiegarle il motivo del mio soggiorno.
“Oh,” disse sorridendo, “tu devi essere uno dei ragazzi di Viktor Arsentyevich. Vediamo in che stanza sei”. Mi consegnò le chiavi della mia stanza e aggiunse: “Meglio che tu corra al ristorante, la colazione è già iniziata. Viktor Arsentyevich è una persona molto puntuale”.
Viktor Kapitonov, o Viktor Arsentyevich per coloro il cui solo nome di battesimo non dica nulla, è stato uno dei grandi dello sport sovietico e una leggenda del ciclismo. Il dramma e il trionfo della corsa olimpica del 1960 diede inizio al dominio dell’Unione Sovietica tra i dilettanti. La gente parlava dell’era pre e post-Kapitonov, di quello che abbiamo fatto e di come abbiamo fatto le cose prima e dopo Roma.
Ha scritto il primo libro che abbia mai letto sul ciclismo in cui raccontava la sua vittoria olimpica. Pedalando nelle colline nel Caucaso settentrionale, dove sono cresciuto, mi piaceva immaginarmi mentre correvo quella gara. Scivolare nei panni di Kapitonov e sognare ad occhi aperti di affrontare Livio Trapè tra le mura dei boati dei tifosi. Non potevo non sconfiggerei il nemico, conoscevo ogni dettaglio di quella gara. Qual era il piano, come tutto fosse andato storto. Come gli Italiani avessero annientato tutti. Come Kapitonov portò Trapè sulla linea del traguardo, sbagliando sprintò per la volata con un giro di anticipo. Come Trapè attaccò a sua volta quando vide quanto idiota fosse Kapitonov. L’inseguimento, l’aggancio, il secondo sprint, quello vero, quello che contava, e poi la vittoria. Il monumento e l’orgoglio del mio sport, del mio Paese e del nostro sistema.
A ripensarla decine di volte, quella gara ha smesso di essere reale e si è trasformata in un film visto al cinema. L’eroe, sapevo che era reale, era da qualche parte, ma la possibilità di incontrarlo, per non parlare di lavorare con lui, era nulla.
Si ritirò nel 1965 e prese il controllo della nazionale facendo diventare l’Unione Sovietica la nazione più importante del ciclismo. Il suo palmares da commissario tecnico: tre medaglie d’oro olimpiche nella cronometro a squadre dal 1972 al 1980. Tra campionati del mondo e giochi olimpici, la cento chilometri a squadre divenne il marchio di fabbrica dei sovietici.
A partire dalla metà degli anni Settanta e fino agli anni Ottanta, gli uomini in maglia rossa CCCP dominarono anche la Corsa della Pace. Guardare in televisione quattro di loro che andavano in fuga nel 1984 per suggellare la seconda vittoria di Sergey Soukhorouchenkov fu un’emozione indimenticabile.
Entrare nel ristorante del Primorskaya era varcare la soglia di una stanza stipata dei più grandi corridori dell’epoca. Due campioni olimpici e cinque del mondo, ragazzi che avevo visto in TV o di cui avevo letto sui giornali.
La porta di legno si aprì su di una sala dalle pareti bianche con il soffitto alto, illuminata da finestre enorme, un uomo avrebbe potuto attraversarle in piedi. Dai tavoli pendeva una tovaglia bianca ricamata che arrivava fino al pavimento. I miei nuovi colleghi sedevano a tavola a gruppi di due o tre sul lato opposto della stanza chiacchierando davanti ai loro piatti. Non c’era nessun altro nel ristorante. Quando la squadra nazionale era a tavola gli altri clienti non avevano accesso al ristorante del Primorskaya.
Mi bloccai e passai in rassegna i tavoli in cerca di uno vuoto a cui sedermi. Alcuni ragazzi mi rivolsero lo sguardo, ma non smisero per neanche un secondo di parlare e masticare. Due o tre mi guardarono con l’espressione: “chi-è-questo-buffone”. Quelle occhiate bruciavano sulla mia pelle e i miei occhi saltavano velocemente da un volto all’altro, alla fine della stanza, al pavimento e alle finestre.
Qualcuno mi stava guardando. Il volto mi era familiare dalle trasmissioni sulla Corsa della Pace: Yuri Kashirin, un campione olimpico e mondiale. Annuì con il mento rivolto verso il tavolo a cui era seduto con un tipo che non avevo mai visto prima. Mi sono diretto verso il suo tavolo e mi sono impossessato immediatamente di una sedia.
“Yura”, si presentò e mi porse la mano.
“Kolya”, mi presentai a mia volta, gli strinsi la mano e guardai l’altro tizio per sapere come si chiamasse
“Quanti anni hai, figliolo?”
“Diciotto”.
Si rivolse a Kashirin e disse: “È legale?”
“Legale cosa?” Kashirin chiese.
“Portare bambini diciottenni in nazionale”.
“Sono sicuro che compirà 19 anni l’anno prossimo, giusto?” Disse Kashirin osservandomi.
“È questo il piano”, dissi.
“Di che squadra sei?” disse l’altro.
“Titan”.
“Vi cucinano a decine in Ucraina, vero?”
“Non sono Ucraino. Vengo dal Caucaso settentrionale”
“Caucaso settentrionale? Dove esattamente nel Caucaso settentrionale?”
“Nalchik”.
“Naaalchik? Conosci Peter Trumheller?”
“É il mio direttore sportivo. Beh, lo era. È stato il mio primo direttore sportivo”.
“Come sei finito in Ucraina?”
“La Titan mi ha offerto un passaggio”.
“Pensavo che tutti i ragazzini russi andassero alla Kuybyshev al giorno d’oggi”.
“Non io”.
“Perché?”
“Trumheller mi ha detto di andare alla Titan e io ci sono andato”.
Si versò una tazza di caffè nero da una caffettiera in acciaio inossidabile e si distese sulla sedia a fissare fuori dalla finestra il Mar Nero.
Kashirin richiamò l’attenzione di un cameriere. “Questo giovanotto, “disse e mi indicò,” ha bisogno della colazione. Era in ritardo”. Senza aver bisogno di sapere altro, il cameriere si girò e si affrettò a portarmi la colazione.
“Io e Volodya Malakhov veniamo da Rostov”, disse Kashirin. “Quasi vicini”, aggiunge.
A più di trecento chilometri da Nalchik, Rostov era geograficamente nel Caucaso settentrionale, la più grande città della regione. Vicini sì, sono stato a Rostov e da quello che ho visto, non vorrei passarvi più di un’ora, troppo sporca e piena di fabbriche.
Allora, questo è Vladimir Malakhov, il velocista di punta e campione nazionale su strada.
“Abbiamo avuto alcuni ucraini negli ultimi due anni”, ha detto Kashirin. “Volodya non è molto entusiasta dell’idea”. Volse lo sguardo verso Malakhov, sorrise e disse: “Perché non ti piacciono gli ucraini, nazista?”
“Io nazista? Non sono io a ingoiare anabolizzanti tutto il giorno”.
“Ingoiare cosa?” Gli chiesi. Sapevo cosa fossero gli anabolizzanti. Ormai il segreto era di dominio pubblico. Chiunque volesse fare due più due sapeva di cosa fossero piene le nuotatrici della Germania Est. Assomigliavano più a delle foche che a degli esseri umani, avevano perso le ultime tracce di femminilità anche nei loro volti. Erano una truffa e tutti lo sapevano. Ma il ciclismo? La voce che circolava: gli anabolizzanti rimpiccioliscono i piselli e rendono gli uomini impotenti. Era tutto quello che sapevo sugli anabolizzanti e ora sembrava che ci fosse qualcosa più di quanto pensassi.
“Che vuol dire ‘ingoiare anabolizzanti tutto il giorno’?” Chiesi dopo che aveva ignorato la mia domanda.
“Ho sentito vi ingozzate di anabolizzanti a palate in Ucraina”, disse. Il “voi” che usò era in una forma generica che non si riferiva a nessuno in particolare. Abbandonai la diplomazia e chiesi, usando il “noi” che includeva anche me personalmente: “E perché dovremmo prendere gli anabolizzanti?”
“Per strizzare un qualcosa in più dalle gambe?”
“Non si ingrassa così?”
“Se ti comporti bene, un giorno ti dirò cosa può fare un chilo o due di massa magra alla tua prestazione. Anche in salita. Nel frattempo, fai colazione, stai zitto e assicurati di essere al tuo meglio ogni giorno, se vuoi sopravvivere qui”.
Colsi il velato suggerimento e mi tenni fuori dai piedi di Malakhov che d’ora in poi avrebbe sempre avuto una lezione di vita per me o un’intuizione brillante da offrirmi. “Perché in un ritiro invernale pedalavo con un pacco con il 24 finale invece che con il 27?” Beh, mi ero risposto tra me e me, perché non me ne frega niente. Era la prima ruota che avevo preso dal mucchio, non siamo in gara.
“Hai messo troppo zucchero nel caffè”, mi disse una mattina a colazione. “Ti rovina i denti e ti fa il culo pesante come un camion”.
Era incredibile quanto immacolata fosse la sua divisa, anche dopo diversi giorni di pioggia in bici. Non avevamo lavatrici negli hotel in cui soggiornavamo e dovevamo farci il bucato a mano nella vasca da bagno o nel lavandino. Quando pioveva spesso mi dava fastidio fare il bucato ogni giorno. Da maestro di scorciatoie, asciugavo superficialmente la divisa al sole, scuotevo via la sabbia e ci pedalavo di nuovo.
Malakhov invece si presentava con una divisa pulita, immacolata ogni volta, non importa quanto fosse stato brutto il tempo il giorno prima: la classe.
Avrei gareggiato con il piumino, se Malakhov ne avesse indossato uno. Un berretto sopra il casco o sotto? Guarda Malakhov. Manicotti su o giù? Guarda Malakhov. Mi diceva di indossare sempre i guanti in corsa e quando, un giorno, dimenticai di metterli, mi fece tornare al bus per prenderli. Arrivai in ritardo per la partenza e inseguii il gruppo per i primi chilometri di gara.
Quando provavo a dire la mia mi zittiva, ma un giorno ho imparato quanto fosse una brava persona. Stavo prendendo del cibo dalle tasche della maglia con entrambe le mani quando qualcuno davanti a me ha fatto cadere una borraccia. È rotolata sotto la mia ruota anteriore, ho perso il controllo e sono rovinato a terra. Malakhov era sulla mia ruota, urtò la mia bici ed atterrò vicino a me. Pensavo che mi avrebbe ucciso proprio lì, sulla strada. Invece, la prima cosa che gli è uscita dalla bocca appena fermi fu: “Stai bene, ragazzo?”
Era il tipo che sostituiva il 53 con il 52 perché sapeva che la volata era in falsopiano. Non attaccava mai, eppure, una fuga vincente non sarebbe quasi mai andata via senza di lui. Non parlava quasi mai di corse, ma ogni volta che lo faceva, ascoltavo.
Non importa quanto credessi di essere pronto per la parte alta della classifica, non lo ero. Sedersi con Malakhov e Kashirin per il pasto tre volte al giorno ha cambiato le cose.
Le gare juniores a livello nazionale erano dure e aggressive. Iniziavano con i fuochi d’artificio, continuavano senza criterio per un po’ per scremare il gruppo di testa, quindi si calmavano mentre ci si interrogava su quale sarebbe stata la prossima mossa. Si poteva vincere una gara facendo una mossa furtiva mentre tutti gli altri si guardavano.
Gli élite iniziavano tranquilli e si davano il tempo di scaldarsi. In una giornata fredda, si spargeva la voce di andare piano per i primi dieci chilometri. Poi il ritmo si alzava. Se non portavi il culo in testa in tempo la cacca avrebbe colpito il ventilatore, e ti avrebbe coperto dalla testa ai piedi prima di sapere cosa stesse succedendo.
Quando il martello dava la mazzata lo faceva con il botto. Ti ritrovi in un ventaglio e se non sei tra i primi venti avrai difficoltà anche a rimanerci. Il gruppo impazzisce, tutti lottano per stare a ruota, torturati da una velocità che riesci a malapena a tenere per così tanto tempo.
Il gruppo di testa non cede neanche dopo che i ventagli lo hanno eroso per chilometri. Nessuno si arrende, non importa quanto la velocità ti faccia male. I ragazzi di testa rimangono uniti fino a quando la pressione scema. Mentre il ritmo cala, orde calano verso la testa prima della prossima sferzata. Non c’è tempo per rilassarsi, devi stare concentrato e guardare dove ti ritrovi ad ogni colpo di pedale.
La maglia rossa della squadra nazionale era un altro fardello che non avrei mai potuto ignorare. Il credo di Kapitonov era: se indossi la maglia della CCCP, la onori con la tua prestazione ogni volta, senza eccezioni. L’aspettativa era che i suoi scalatori andassero meglio in salita degli altri scalatori, che gli sprinter dominassero gli sprint ogni volta, e che i diesel vincessero le cronometro. Non accettava nessuna scusa per la tua prestazione di merda. Kapitonov ti avrebbe concesso un po’ di tregua per una o due volte, ma se avessi continuato a fare casini saresti stato fuori dalla porta senza nessun preavviso.
Continua….
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Original English version
Basking in the sun and clicking easy miles in Crimea, I heard that the elite national team had drafted me in. In three weeks’ time, I would be riding next to the giants of Soviet cycling. This was the top step on the ladder, nowhere else to climb after that, this was it.
To a day a year ago, I sat at the Titan team meeting and listened to Yuri Elizarov’s gold medal plan. The door to the elite national team and the 1988 Olympic Games. And here I’m, in the Primorskaya hotel talking to a receptionist and telling her why I’m here.
“Oh,” she said, smiling, “you must be one of the Viktor Arsentyevich’s boys. Let’s see what room you’re in.” She gave me keys to my room and said: “You better hurry up to the restaurant, the breakfast had already started. Viktor Arsentyevich is very punctual.”
Viktor Kapitonov, or Viktor Arsentyevich for those not on the first-name basis with him, was one of the Soviet sport’s greats and a cycling legend. The drama and the triumph of the 1960 Olympic road race started the Soviet Union’s reign in amateur cycling. People talked about pre- and post-Kapitonov era, what we did and how we did things before and after Rome.
He authored the first book I read about cycling where he described his Olympic victory. Riding hills in the North Caucasus where I grew up, I liked to picture myself racing that road race. Slip into Kapitonov’s skin and daydream going against Livio Trapè through the wall of tifosi’s roar. I would work out how to overcome the enemy because I knew every detail of that race. What the plan was, how it all went wrong more than once. How Italians destroyed everyone who was anyone. How Kapitonov dragged Trapè to the line, made a mistake and sprinted to victory a lap too early. How Trapè attacked once he saw what an idiot Kapitonov was. The chase, the catch, the second sprint, the real one, the one that counted, and then the win. The monument and the pride of my sport, my country, and our system.
Playing that race back in my mind dozens of times, it stopped being real and turned into a movie I’d seen in a cinema. The hero, I knew he was real, was around somewhere but the chance of meeting him, never mind working with him, were nil.
He retired in 1965 and took over the national team to put the Soviet Union on the map as the cycling top nation. He delivered the goods: three back to back Olympic gold medals in team time trials from 1972 to 1980. With world titles between the Games, the team time trial became the Soviets’ hallmark race.
From the mid-1970s and into the 1980s, men in red CCCP jerseys ruled the Peace Race too. Watching on television four of them riding away from the peloton in 1984 to clinch Sergey Soukhorouchenkov’s second win was a thrill you never forget.
When I walked into Primorskaya restaurant that morning, I walked into a room crowded by the grand riders of the era. Two Olympic and five world champions, guys I watched on TV or read about in the newspapers.
The wooden door opened into a high-ceiling hall with white walls, sunlit from the human-height windows. The white embroidered tablecloth reaching all the way to the floor hung from the tables. The riders sat two or three a table on the opposite side of the hall chatting away and working on their food. No one else was in the restaurant. When the national team ate, the public had no business eating at Primorskaya.
I froze and scanned the tables looking for an empty one I could land at. Some guys glanced at me and kept talking and chewing. Two or three stared with a who-the-hell-is-this-clown look on their faces. The stares burned my skin and my eyes hopped from one face to another, to the end of the room, to the floor, and the windows.
Someone was looking at me. The familiar face was from the Peace Race broadcasts — Yuri Kashirin, an Olympic and world champion. He nodded with his chin pointing at the table he sat at with a guy I’ve never seen before. I steered toward his table and took a chair as soon as I could grab it.
“Yura,” he said and stuck his hand out.
“Kolya,” I said, shook his hand and looked at the other guy to hear his name.
“How old are you, son?” he said.
“Eighteen.”
He turned to Kashirin and said, “Is this even legal?”
“Legal what?” Kashirin said.
“Taking eighteen-year-old kids into the national team.”
“I’m sure he’ll turn nineteen next year, right?” Kashirin said, looking at me.
“That’s the plan,” I said.
“What team are you from?” the other guy said.
“Titan.”
“They cook you by the dozens in Ukraine, don’t they?” he said.
“I’m not Ukrainian. I’m from the North Caucasus,” I said.
“North Caucasus? Where exactly in the North Caucasus?”
“Nalchik.”
“Naaalchik? Do you know Peter Trumheller?”
“He is my coach. Well, was. He was my first coach.”
“How did you end up in Ukraine?”
“Titan offered me a ride.”
“I thought all Russian kids go to Kuybyshev nowadays.”
“I didn’t.”
“Why?”
“Trumheller said go to Titan, I went.”
He poured himself a cup of black coffee from a stainless steel pot and reclined in the chair staring out the window at the Black Sea outside.
Kashirin waved to a waiter. “This young man,” he said and pointed at me, “needs breakfast. He was late.” Without needing to know anything else, the waiter turned around and hurried away to fetch me breakfast.
“Volodya Malakhov and I are from Rostov,” Kashirin said. “Almost neighbors,” he added.
More than three hundred kilometers from Nalchik, Rostov was geographically in North Caucasus, the largest city in the region. Neighbors yeah, I’ve been to Rostov and from what I’ve seen, I wouldn’t want to spend an hour in that dirty, industrial place.
So, this is Vladimir Malakhov, the A-list sprinter and a national road champion.
“We’ve had some Ukrainians coming in the last couple of years,” Kashirin said. “Volodya’s not too keen on the idea.” He looked at Malakhov, grinned and said, “Why don’t you like Ukrainians, you Nazi?”
“Me Nazi? I’m not the one swallowing anabolics all day long.”
“Swallowing what?” I said. I knew what anabolics were. By this time, the genie was out of the bottle. Anyone willing to put two and two together knew what the East German women swimmers were on. Looking more like seals than human, they lost the last traces of femininity even on their faces. They were a joke and everyone knew that. But cycling? The word on the street was: ‘bolics shrink dicks and make men impotent. That’s all I knew about anabolics and now it seemed like there was more to it than I thought I knew.
“What do you mean swallowing anabolics all day?” I said after he ignored my question.
“I heard you gobble ‘bolics by the shovels in Ukraine,” he said. The ‘you’ he used was in a plural form that didn’t refer to anybody. I dropped the diplomacy and asked, using a form of ‘we’ that included me personally: “And why would we be taking ‘bolics?”
“To squeeze a little bit of performance out of your legs?”
“Don’t you gain weight with it?” I said.
“If you behave yourself, one day I’ll tell you what an extra kilo or two of lean muscle can do to your performance. Even on the hills. Meantime, eat your breakfast, shut up and make sure you’re on your best day every day if you want to survive here.”
I took the hint and stayed out of the Malakhov’s way. He always had a life lesson for me or a smart insight to offer. Why at a winter training camp I was riding on 24s and not on 27s? Well, I would reply in my head, because I don’t give a damn. I glue on whatever I grab from the pile. It’s not like we’re racing tomorrow.
“You put too much sugar in your coffee,” he told me one morning at breakfast. “It ruins your teeth and makes your ass heavy as a truck.”
It amazed me how immaculate his cycling kit was even after several rainy days on a bike. We didn’t have washing machines in the hotels we lived in and had to wash our kits by hand in a bath tab or in a sink. During rainy periods I couldn’t be bothered washing every day. A master of shortcuts, I would dry the top layer stuff in the sun, shake the sand off and ride in it again.
Malakhov, he’d turn up in a clean, spotless kit every time no matter how foul the weather was the day before — a class act.
I’d start a race in a rain jacket if Malakhov had been wearing one. A cap over the helmet or under? Look at Malakhov. Arm warmers on or off? Look at Malakhov. He told me to always wear gloves in races and when I forgot to put them on one day, he made me ride back to the team bus to get them. I missed the start and chased the peloton the first few kilometers of the race.
He annoyed the living light out of me with his preaching but I learned one day he meant good. I was getting food out of the jersey pockets with both hands in when someone in front of me dropped a bottle. It rolled under my front wheel, I lost it and hit the floor. Malakhov was on my wheel, tumbled down over my bike and landed next to me. I thought he’d kill me right there on the road. Instead, the first thing that came out of his mouth when we came to a stop was: “Are you OK, kid?”
He was that rare breed of a cyclist who’d swap a fifty-three chainring for a fifty-two one because he knew the sprint was on a false flat. He never attacked, yet, a winning breakaway would almost never go without him. He hardly ever talked about races but every time he did, I listened.
No matter how much I thought I was ready for the top league, I wasn’t. Sitting with Malakhov and Kashirin at a dinner table three times a day changed that.
The junior racing at the national level was hard and aggressive. It would start with fireworks, go on stupid for a while and sort itself out into a tiptop group. They’d settle down and wonder what to do next. You could win a race by doing a sneaky move while everyone else was looking at each other.
The elite guys, they’d start easy and give themselves time to warm up. On a cold day, the word would spread to go piano for the first ten kilometres. Then the pace would pick up. If you didn’t get your ass to the front in time, the pooh would hit the fan and cover you from head to toe before you knew what’s going on.
When the hammer went down, it went down with a bang. You turn into a crosswind and if you’re not in the top twenty, you’ll have a hard time to stay on. The strung-out peloton, everyone fighting to stay on the wheel, tortured by the speed you can only hold for so long.
The peloton never broke up even after the crosswinds had gunned it for kilometres. Nobody gave up no matter how painful the speed was. These guys stayed together until the pressure had ended. As the pace dropped, hordes of them would crawl to the front before the next blast. Without time to relax, you had to stay wired and watch where you were at every pedal’s turn.
The national team’s red jersey was another burden I could never ignore. Kapitonov’s creed was: you put that CCCP jersey on, you honor it with performance every time, no exceptions. He expected his climbers to climb better than other climbers, sprinters to nail the sprints every time, and the diesels to win the time trials. He brushed off all excuses if you had one for your crap performance. Kapitonov would cut you some slack once or twice but if you keep on screwing up, you’d be out the door without a warning.