Original English version following below
La strada per la cima della piramide del ciclismo si è rivelata più impervia di quanto pensassi. All’inizio niente sembrava troppo complicato: vinci o finisci sul podio ai campionati nazionali russi per essere selezionato nella Kuybyshev, fallo e sei a un passo dalla cima: la nazionale.
La Kuybyshev era la più grande, la più potente squadra di ciclismo dell’URSS. Finanziata e legata all’esercito sovietico, i suoi dirigenti governavano la scena ciclistica sovietica. Potevano scegliere qualsiasi talento da qualsiasi parte del Paese, non importava se provenivi dalla Russia o dall’Estonia: ti facevano firmare un contratto di cinque anni basato sul servizio militare, ti ingabbiavano nel loro sistema e osservavano se ne uscivi vivo o no. Sopravvivi e puoi arrivare in nazionale: se il tritacarne della Kuybyshev non ti aveva macinato, eri il tipo giusto per gareggiare con la maglia rossa della CCCP.
Un sacco di corridori della nazionale sono passati attraverso gli ingranaggi della Kuybyshev. Prendi qualsiasi talento che trovi nell’intero Paese e buttalo in pasto ai lupi, quindi tieni quelli che sono sopravvissuti e butta quelli che non sono sopravvissuti. La Kuybyshev era la massima sintesi del sistema sovietico del ciclismo su strada: un mondo spietato dove vincere con qualsiasi mezzo era la legge.
Sapevo come funzionava la Kuybyshev da Piotr Trumheller e da uno dei miei vecchi compagni di squadra. Avevano ingaggiato il ragazzo dopo il suo secondo posto al campionato nazionale su strada, tornò nove mesi dopo rifiutandosi di pedalare più di un paio di volte a settimana prima di lasciare il ciclismo per sempre. Mi disse che le biciclette erano roba da idioti, che preferiva marcire in una fabbrica piuttosto che distruggersi il corpo gareggiando. La sua rinuncia, uno che era un talento di vertice, mi scoraggiò, ma non c’era altra via. Se sei in Russia e vuoi scalare la piramide, devi passare per la Kuybyshev o non vai da nessuna parte.
Ho sprecato due occasioni ai nazionali per mostrare alla Kuybyshev il mio valore. Sai, quando volevamo prendere in giro qualcuno dicevamo sempre che faceva così schifo che non era nemmeno nel primo foglio. All’epoca stampavano gli ordini di arrivo su fogli di carta con una trentina di posti a pagina: eri scarso se non comparivi nemmeno nel primo foglio.
Avevo fallito, non ero presente nel primo foglio di nessuna gara che contava e Trumheller mi aveva fatto la ramanzina dopo ogni flop. Dubbi sul fatto che fossi abbastanza bravo per continuare a correre si insinuarono.
“Sai cos’hai che non va?” mi disse dopo che avevo fallito di nuovo. “Non ti impegni tanto quanto gli altri ragazzi. Sai di poter vincere tutto quello che vuoi se ti impegni, ma non lo fai mai quando conta”.
“Ho dato tutto quello che avevo”.
“Pur risultando due minuti più lento che una settimana fa?”
“Era su un percorso più veloce”.
“Non di due minuti. Sai perché non ti impegni? È troppo facile per te. Non vuoi soffrire per vincere come fanno gli altri. Quando vai ad una gara che conta non la desideri abbastanza. Pensi che ti ritroverai la gara in mano perché sei così speciale. Sai una cosa? Ti sbagli. Non andrai da nessuna parte finché non combatterai come un toro. Gli altri ragazzi là fuori lo sanno far bene, sanno quello che vogliono: sono pronti a tagliarti la gola se intralci la loro strada. Smettila di comportarti come se fossi Eddy Merckx, non sei Merckx. Se vuoi essere come lui, corri come lui. Io vedo solo una principessina su due ruote”.
La mia ultima possibilità di compiere la scalata arrivò nel 1983 a Kaliningrad. Una cronometro di 25 chilometri e una gara su strada dove dovevo finirla di scherzare se volevo un futuro nel ciclismo.
La gara su strada era un piattone con un arrivo in volata assicurato. Pensavo di non avere nessuna possibilità e mi concentrai sulla cronometro. Due giorni prima di volare a Kaliningrad, Trumheller mi disse che aveva assemblato un paio di ruote per la cronometro per me. Aveva conservato del materiale dal suo viaggio in Italia. Un paio di mozzi Campagnolo Record da 28 fori, cerchi Nisi e tubolari in seta Clément. Un tedesco frugale, ora sapevo quanto fosse importante il mio ultimo test ai suoi occhi, così tanto da mettere insieme tutto quel prezioso materiale per me.
“Ci siamo”, mi disse dopo che ebbi finito il riscaldamento mentre stavo salendo su un taxi che avevamo noleggiato per usarlo come ammiraglia. “Fallisci anche questa volta e sei finito, la prossima primavera avrai degli stivali militari ai piedi”. Addio ciclismo, “Arrivederci Roma”.
Sostituì le ruote mentre indossavo una maglia asciutta e ripulì i tubolari passandovi il palmo della mano. Sulla strada, con la mia bici tra le mani, mi attese fino a quando usci dalla macchina.
“Quattro minuti alla partenza” disse e mi mise una mano sulla spalla quando mi avvicinai per prendere la bici. “Quanto veramente lo vuoi?”
“Non partirò per militare”, risposi. “Non con queste ruote”.
Ho aggredito la corsa fin dal colpo di pistola e l’ho affrontata come se fosse una ripetuta di cinque chilometri. Spingere, passare la linea rossa fino a quando il peso della corsa mi è caduto addosso verso la fine della gara. L’ho sopportato a testa bassa e ho continuato a pedalare. Non rallenti perché sai che hai la corsa in saccoccia e nessun dolore può fermarti.
Ho perso per sei secondi da uno della nazionale. Per uno che non faceva il primo foglio nelle occasioni che contano, un secondo posto era un trionfo. Era ancora preoccupato che non fosse abbastanza per un posto nella Kuybyshev.
English Original version
The road to the top of the cycling pyramid turned out to be more rutted than I thought it would be. At first, nothing seemed too complicated about it. Win or finish on a podium at the Russian state championships to get selected into the Kuybyshev team. Do that and you’re one step away from the top, the national team.
Kuybyshev was the biggest, the most powerful cycling team in the USSR. Funded and tied to the Soviet Army, its chiefs ruled the Soviet road cycling landscape. They could pick and choose any talent from anywhere in the country. It didn’t matter if you were from Russia or Estonia. They’d sign you for a five-year military-backed contract, bottle you inside their system and watch if you come out alive or not. Survive and you can make it to the national team. If Kuybyshev’s meat grinder didn’t ravage you, you were the right kind to race in the red CCCP jersey.
A lot of national team riders came through the Kuybyshev machine. Snatch any talent you can find anywhere in the country and throw him to the wolves. Keep the ones that survived and dump those that didn’t. Kuybyshev was the epitome of the Soviet road cycling system. A cut-throat world where winning by any means was the law.
I knew what Kuybyshev was like from Piotr Trumheller and one of my older team-mates. They took the guy in as a state silver road race medallist. He came back nine months later refusing to ride more than a couple of times a week before he quit cycling for good. He told me bikes are stupid, that he’d rather rot in a factory than cripple himself racing. His fall from the top of a talent ladder daunted me but there were no other routes. If you’re from Russia and want to climb the pyramid, you go up either via Kuybyshev or you don’t go anywhere at all.
I blew two chances I had at the state championships to show Kuybyshev my worth. Dude, we used to say when we wanted to mock someone, you’re so full of crap, you didn’t even make it onto the first sheet. They used to print race results on paper sheets in those days with about thirty places on the first page. You were a loser if you didn’t make the first sheet.
I failed to appear on the first sheet in every race that mattered. Trumheller scolded me after each flop. Doubts if I was good enough sapped my drive to keep going.
“You know what’s wrong with you?” he said after I bombed again. “You don’t push yourself as hard as the other guys. You think you can win anything you want if you go hard, but you never do when it counts.”
“I gave it everything I had.”
“And went two minutes slower than a week before?”
“That was on a faster road.”
“Not by two minutes. You know why you don’t push? It’s all too easy for you. You don’t want to suffer like the other guys to get a win. When you come to a serious race, you don’t want it bad enough. You think the race will fall into your hands by itself because you’re so special. You know what? You’re wrong. You won’t get anywhere until you fight like a dog. These other guys out there who did well, they know what they want. They’ll cut your throat if you get on their way. Stop acting like you’re Eddy Merckx. You’re not Merckx. If you want to be him, race like him. All I see is a princess on two wheels.”
My last chance to step up the ladder came in May 1983 in Kaliningrad. A twenty-five-kilometre time trial and a road race were all I had left to play with if I wanted a future in cycling.
The road race was pancake flat with a guaranteed bunch sprint. I didn’t rate my chances and focused only on the time trial. Two days before we flew to Kaliningrad, Trumheller told me he had built a pair of time trial wheels for me. He kept a stash of gear since his trip to Italy. A pair of twenty-eight-hole Campagnolo Record hubs, Nisi rims, and Clement silks. A frugal German, I knew how important my last test was in his eyes if he pulled out this prized kit for me.
“This is it,” he said when I pulled up to a taxi we hired as a team car after I finished the warm-up. “Blow this one again, and you’re done, in the boots by next spring. Goodbye cycling, arrivederci Roma.”
He swapped the wheels while I changed into the dry jersey and wiped the silks clean with a bare hand. On the road with my bike, he waited for me until I got out of the car.
“Four minutes to go,” he said and placed his hand on my shoulder when I came up to take the bike. “How bad you want it?”
“I’m not going to the army,” I said. “Not with these wheels.”
I plunged into the race from the gun and scorched it as if it was a five-kilometre interval. Pushing, hovering over the red line until the race’s weight crashed down on me toward the end. I took it head-on and kept going. Didn’t slow down because you always know when the race is in the bag and no amount of pain can stop you.
I lost by six seconds to a national team member. For someone who couldn’t make it onto the first sheet when it mattered, a second place was a triumph. I still worried if this was enough for a place in the Kuybyshev team.