English original version following below
Due settimane dopo atterrai all’aeroporto Borispol di Kiev. Entrai subito in contatto con la strana lingua ucraina dagli altoparlanti e dai tabelloni. Nikolai Rogozyan mi stava aspettando davanti l’aereoporto in un furgone UAZ-452 quattro ruote motrici costruito per mangiarsi le strade sterrate siberiane per pranzo.
“Butta dentro la tua roba”, mi disse e ha aprì il portellone del furgone. Anonimo all’esterno, non vi era dubbio a cosa servisse il mezzo una volta visto l’interno. Una mezza dozzina di tubolari con il fianco in para stazionavano sul pavimento di acciaio. Ruote di scorta, una bottiglia di plastica piena di mastice con una spatola ricavata da un pattino dei freni per rimuovere dai cerchi quello in eccesso. Borracce, caschi alla danese di cuoio e dei rulli con i cilindri in legno posti tra i sedili adagiati su di un fianco. Un vago odore di Finalgon, l’olio di canfora preferito dai professionisti sovietici, permeava l’interno del furgone. Riposi la bici vicino ai rulli, gettai la borsa nel furgone e mi sedetti sul sedile del passeggero.
“Dove stiamo andando?” gli chiesi.
“Al ritiro, nel complesso di Lesnoye. A un’ora di auto da qui, a ovest di Kiev”.
Per strada imparai quanto sarebbe stata diversa la mia vita d’ora in poi.
“A meno che tu non veda piovere rocce”, mi disse Rogozyan, “usciamo in allenamento. Tre volte al giorno: quaranta chilometri prima di colazione, fino a duecento in seguito in mattinata, e altri quaranta nel tardo pomeriggio. È normale totalizzare quattromila chilometri al mese, o più”.
La Titan aveva ridefinito il significato del giorno di riposo di un professionista: cinquanta chilometri al mattino seguiti da un sonnellino e sauna nel pomeriggio. È così che pensavano che un professionista dovesse riposare alla fine di un ciclo di allenamento.
Si pedalava poco in doppia fila. Passavano molto tempo in gruppi di otto disposti a fila singola facendo lunghi intervalli a diverse intensità.
Talvolta pedalavano a velocità vicine ai quaranta, ma la velocità non era il focus, l’intensità lo era. Due decenni di test avevano mostrato adattamenti migliori pedalando intorno a quell’intensità.
Questo carico di lavoro era difficile da gestire senza riposo e adeguata alimentazione. Quando non pedalavano o mangiavano, i corridori della Titan dormivano o erano coricati sul letto a parlare di cavolate e a fare battute. La squadra aveva le basi dei suoi ritiri lontano dalla civiltà e dormire era l’unica opzione durante il tempo libero. Nessuno poteva lasciare il campo senza permesso.
Le fidanzate erano bandite. “Vedrai un sacco di ginnaste al centro di Lesnoye. La nazionale femminile ucraina soggiorna lì in questi giorni” aggiunse Rogozyan mentre attraversavamo il ponte Paton sul fiume Dnepr. “Se vi vedo anche solo a cinque metri da uno di loro, vi spedisco a casa. Fidatevi, conosco ogni scusa al mondo sul perché ritenete che dovreste stare vicino a una ragazza. Non provateci nemmeno. Se avete una ragazza a casa, scrivetele una lettera e ditele che con lei avete chiuso. Fatela finita adesso”.
I corridori potevano tornare a casa per quattro giorni per due o tre volte all’anno, ma il resto del tempo si viveva e si viaggiava per tutto il Paese da corsa a corsa e da ritiro a ritiro con le stesse persone. Mentre ascoltavo Rogozyan durante il viaggio sul furgone questo mi sembrava uno stile di vita da sogno, ma ancora non sapevo cosa significasse condividere una stanza con la stessa persona per diversi mesi.
Alla Titan facevano del loro meglio per prendersi cura dell’alimentazione dei corridori, ma nessuno poteva garantire che il cibo fosse sempre di qualità. Attraverso i suoi legami con l’esercito, la squadra trovò un modo per disporre del cibo dei cosmonauti: scatole di cibo per lo spazio viaggiavano con la squadra ovunque andasse. Usavano gel di carboidrati confezionati in tubi di alluminio da 100 millilitri prima che i gel diventassero di uso comune. Una corsa su strada o una stazione spaziale, non importava, bastava che funzionasse.
Niente di questo discorso avrebbe avuto significato se non avessi passato la selezione. Aspettai un momento di silenzio e chiesi: “Sono già nella Titan?”.
“No, dobbiamo ancora fare la selezione”. Mi disse che volevano otto nuovi corridori dai sedici candidati che avevano invitato al ritiro. Avrei incontrato più di venti ragazzi, ma alcuni erano già in squadra.
Il primo scoglio era il test incrementale al laboratorio dell’Università sportiva di Kiev. “É una sorta di tortura. Dobbiamo assicurarci di non perdere tempo con qualcuno che non abbia i parametri fisiologici per correre ai massimi livelli”, mi spiegò Rogozyan.
Chi supererà il test di laboratorio resterà e parteciperà ad una corsa a tappe tra i candidati. “Abbiamo prenotato il circuito di Chaika per una settimana. Farete sei tappe di circa cento chilometri ciascuna. Venti uomini in gara, non ci si può nascondere. Il circuito è piatto. Dovrai correre come un cane sciolto per mostrarci chi sei. Roba dura, ti spingerà al limite. Che è poi quello che vogliamo”.
Uscimmo dall’autostrada Brest-Litovsk per una stretta strada laterale. Dopo aver attraversato una fitta foresta, lo UAZ-452 si fermò vicino a un gruppo di casette in legno.
“Il pranzo è tra due ore”, disse Rogozyan e indicò una delle casette. “Posa la tua roba e la bici qui ed inizia a disfare le valigie. Fai in modo di essere pronto per l’allenamento del pomeriggio”.
Uscii dal furgone e respirai una boccata di pura e frizzante aria della foresta. Ero entrato nell’età adulta. I miei genitori, gli insegnanti, il mio primo allenatore e i miei amici erano rimasti tutti su un pianeta che avevo lasciato per sempre. Ero da solo, ora, senza idea di come dovevo comportarmi in questa nuova vita.
Come aveva potuto George Orwell descrivere l’Unione Sovietica degli anni ottanta nel 1947 è difficile da spiegare, ma lo ha fatto. La nuova era che avevamo iniziato nel 1917 per liberare il mondo dal capitalismo era vicina al suo compimento se i “teleschermi” dicevano la verità. L’avversario, gli Stati Uniti assiema ai suoi lacchè, è debole e sta per crollare. “Vinceremo!” gridavano gli slogan sui cartelloni, “la vittoria è nostra!”
Pioveva il giorno in cui ho scoperto che il mondo in cui credevo era falso. Andai a casa di un amico per prendere in prestito un libro. Suo padre era un bibliotecario e anche l’appartamento in cui viveva sembrava una biblioteca: aveva trasformato ogni muro in una libreria e l’aveva riempita di letteratura.
È qui che mi ha diede una copia battuta a macchina, un samizdat [testi clandestini in URSS perché contrari alla linea del regime, NdT] di Arcipelago Gulag di Solgenitsin. A quel tempo, possedere questo libro, per non parlare di passarlo agli amici, era un reato punito con un lungo periodo di prigionia.
Prima di Arcipelago, vi fu Amerika. Il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti pubblicava questa rivista in russo durante la guerra fredda. In cambio la sovietica The URSS approdò negli Stati Uniti in inglese. Ancora oggi non so come la manina del governo statunitense passasse attraverso le maglie della polizia sovietica. Sulle sue pagine patinate con fotografie a tutta pagina, lessi una storia sulle auto di seconda mano. Le somme di denaro di cui parlava quella storia erano di centinaia di dollari, non migliaia. Non potevamo comprare dollari in Unione Sovietica, ma ne sapevamo il valore: settanta copechi per un dollaro USA. Lo sapevamo dal tasso di cambio stabilito dallo stato pubblicato sull’Izvestiya cinque giorni a settimana. Con quel tasso cinquecento dollari erano trecentocinquanta rubli. Puoi comprare un’auto per trecentocinquanta rubli in America? Cosa? Un rottame mezzo morto in Unione Sovietica te ne costerà migliaia e una Lada nuova più di diecimila rubli sul mercato nero. Con uno stipendio medio, tra i cento e i centocinquanta rubli al mese, ci sarebbero volute una dozzina di vite per risparmiare per una macchina. In America un idraulico avrebbe potuto comprare più di un’auto usata ad ogni busta paga. O la storia era troppo bella per essere vera o c’era qualcosa che non andava nel tasso di cambio.
Continua….
Original English version
Unless you see rocks falling from the sky, Rogozyan said, we ride. Three times a day. Forty kilometers before breakfast, up to two hundred later in the up to two hundred later in the morning, and another forty in the late afternoon. It’s normal to clock four thousand a month or more.
Titan redefined the meaning of a professional cyclist’s rest day. Fifty kilometres in the morning after a sleep-in and sauna in the afternoon. That’s how they thought a pro should rest at the end of a training cycle.
Cruising two abreast was minimal. They spent a lot of time in a single file groups of eight riders doing long intervals at different intensities.
They rode at speeds somewhere near forty. The speed wasn’t the point, the intensity was. Two decades of tests showed better adaptations riding near that speed’s intensity.
This workload was hard to handle without rest and nutrition. When not riding or eating, Titan riders were either sleeping or lying in bed talking trash and cracking jokes. The team had its training camps away from civilization. Sleeping was the only option during riders’ free time. No one could leave the training base without permission.
They banned girlfriends. “You’ll see a lot of gymnasts at the Lesnoye resort. The Ukrainian female state team is there right now,” Rogozyan said as we crossed Paton Bridge over Dnieper River. “If I see you within five meters from any one of them, I’ll send you home. Trust me, I know every excuse in the world about why you think you should be near a girl. Don’t even try. If you have a girlfriend at home, write a letter and tell her you’re through with her. End it now.” Two or three times a year, riders could go home for four days. Rest of the time, you live with the same people and travel all over the country from race to race and from camp to camp. Driving in the van and listening to Rogozyan, this life-style was a bedtime story. Except I didn’t know yet what it’s like to share a room with the same guy for several months.
Titan’s crew did its best to take care of riders’ nutrition but no one could guarantee quality food at all times. Through its military connections, Titan found a way to the cosmonauts’ food supplies. Boxes of space food travelled with the team everywhere it went. They used carbohydrate gels packaged in hundred-milliliter aluminum tubes before gels became common. Road race or a space station, didn’t matter as long as it worked.
None of this talk would mean anything if I failed to make the cut. I waited for a break and said, “Am I in Titan already?”
“No, we still have to go through a selection process.” He told me they want eight new riders from sixteen candidates they’d invited to the training camp. More than twenty guys would be there but some of them are already on the team.
The first round is the ramp test at the Kiev Sports University’s lab. “It’s a bit of a torture. We have to ensure we’re not wasting our time with someone who’s got no physiology to race at the top level,” Rogozyan said.
Those who pass the lab test will stay and race a stage race for the candidates. “We booked the Chaika race circuit for a week. You’ll do six stages, about hundred each. Twenty guys in the race, nowhere to hide. The circuit is flat. You’ll have to race like mad pit bulls to show us who you are. Hard going, it’ll push you to the limit. Which is what we want.”
We turned off the Brest-Litovsk Highway into a narrow side road. After driving through a thick forest, the UAZ-452 stopped near a group of timber cottages.
“Lunch is in two hours,” Rogozyan said and pointed at one of the cottages. “Get your stuff and the bike in there and start unpacking. You should be good to go for the afternoon ride.”
I got out of the van and breathed in a lungful of sweet, crisp forest air. This was adulthood. My parents, teachers, my first coach, and my friends have all stayed back on a planet I left for good. Was on my own now with no idea how to maneuver in this new life by myself.
How could George Orwell describe the Soviet Union of the 1980s in 1947 is hard to explain, but he did. The new era we started in 1917 to rid the world of capitalism was near its end if the ‘telescreens’ told the truth. The adversary, the United States and its lackeys, is weak and about to crumble. “We Will Prevail!” shouted the slogans on the billboards, “The Victory is Ours!”
It rained outside the day I found out the world I believed in was fake. I came over to a friend’s place to borrow a book. His dad was a librarian. The apartment he lived in looked like a library too. His dad turned every wall into a bookshelf and filled them with literature.
It is here he passed on to me a hand-typed samizdat copy of Solzhenitsyn’s The Gulag Archipelago. At the time, to own this book, never mind giving it to friends, was a criminal offense with a long jail term.
Before The Archipelago, there was Amerika. The US Department of State published this magazine in Russian during the Cold War. In return, the Soviet-made The USSR went to the United States in English. To this day I’m not sure how this slight of hand by US government slipped through the Soviet thought police.
On its glossy pages with full spread photography, I read a story about secondhand cars. The sums of money the story mentioned, hundreds of dollars, not thousands. You couldn’t buy US dollars in the Soviet Union but we knew its value — seventy kopecks for one US dollar. We knew this from the state-set exchange rate published in Izvestiya five days a week.
With that rate, five hundred bucks was three hundred fifty rubles. You can buy a car for three hundred fifty rubles in America? What the hell? A beat up, half-dead clunker in the Soviet Union will cost you thousands and a new Lada more than ten on the black market. With an average salary between a hundred and hundred fifty a month, it would take a dozen lifetimes to save for a car. In America, a plumber could buy more than one secondhand car with every paycheck if he wanted to. Either the story was too good to be true or there was something wrong with the foreign exchange rate.